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Il baule dei ricordi

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Il baule dei ricordi è collocato nell’inconfondibile latitudine di quel luogo che uno degli scrivani dell’immaginario collettivo ha descritto come angusto e spesso maleodorante, il cui nome rievoca il soffio che si fa d’istinto per mandar via la polvere: la soffitta
Intorno ad esso generazioni di tarli hanno tentato colpi di stato più o meno riusciti e, indisturbati, hanno seguito la propria vocazione per l’architettura, ben lontani dagli occhi di chi, in un tempo imprecisato, aveva aperto il baule per riporvi ricordi di giorni che non c’erano più. Ma non solo. Spesso vi erano anche ricordi che non volevano essere ricordati, di quando l’unico modo per distruggere qualcosa che non si voleva più era buttarla nel fuoco, ma la stanza del focolare era sempre affollata e, si sa, le polaroid, o peggio, i peluche ci mettevano un po’ a bruciare. E poi lasciavano un odore che parlava troppo quindi meglio archiviare tutto in soffitta, nella stanza del mai più. O del sempre, sul piano inclinato dei punti di vista. 
Anche mia nonna aveva un baule, che in realtà era una cassapanca, che fungeva da porta-cappotti e deposito borse, sul quale noi bambini ci sedevamo e immaginavamo di guidare una carrozza, con tanto di simulazione del rumore degli zoccoli dei cavalli, battendo i tacchi a tempo sul bordo di legno scuro. Questo baule, però, sfuggiva alla sua ubicazione da manuale perché si trovava in corridoio e non faceva altro che alimentare la nostra curiosità di bambini di città alla ricerca di nuovi passatempi con cui riempire piacevolmente i lunghi pomeriggi trascorsi a casa della nonna, pantofole col tacchetto e televisione su quello che definivamo “il canale delle telenovelle” (con tanto di doppia elle). 
Seppur curiosi, non eravamo soliti avvicinarci troppo frequentemente al baule del corridoio perché avvertivamo una sorta di timore reverenziale, infusoci con ogni probabilità dai nostri genitori, poiché lì dentro c’erano “le cose della nonna che se le toccate se ne accorge e si arrabbia”. 
Rikardo Leka, acquerello e matite.
Un giorno decisi di rischiare e chiesi alla nonna cosa ci fosse nella cassapanca. “Eh, figlia mia, tante cose... Ricordini, coperte, fotografie, cose vecchie che non lo so più neanche io!”. Al che azzardai un “Ma potremmo vederle con calma un giorno, noi due? T-tipo oggi …” e la nonna, con fare visibilmente combattuto, rispose “No, dai, non conviene, poi addio ordine, ma sai quante cose ci sono là dentro? Soprattutto fotografie: sai quante ce ne sono? Pile e pile! Quelle del matrimonio, quelle dell’Argentina, dei parenti che hanno fatto la guerra … Pensa tu che ho persino una fotografia della mia prima comunione: 30 giugno 1940”. E ripeté la data tra sé e sé. 
Complice il fatto che io la prima comunione l’avrei fatta di là a poco, le chiesi di mostrarmi almeno quella perché ero curiosa di vedere come fosse il vestito che indossava. Gli occhi verde chiaro della nonna dissero di sì e quattro mani aprirono la cassapanca in un gesto unico. 
Ed ecco album di varia dimensione, buste con francobolli del secondo dopoguerra, il passaporto del nonno con il timbro di quando era andato in Svizzera per la prima volta, le mani di gesso nell’atto di scambiarsi gli anelli, in cima alla torta nuziale dei miei nonni nel non più lontano 1955, la medaglietta con la madonna nera che un sarto africano aveva regalato a mia nonna diciottenne, nella penombra di una lavanderia di Buenos Aires, le monete americane regalate da chissà chi, le foto di un carnevale in cui il nonno e i suoi amici si erano travestiti da scimmie, la borsa in pelle di coccodrillo “perché in Argentina andava di moda”. E ancora lettere a fratelli, suoceri e cognati sparsi nel mondo spedite con l’onnipresente formula “Cari saluti da” seguita da “qui tutto bene. Speriamo che anche voi stiate bene”. 
Guardavo quel mondo in bianco e nero e mi chiedevo che colori avessero avuto i vestiti e gli occhi di quelle persone che mi fissavano inconsapevolmente immortali dai cartoncini delle fotografie. Chiedevo alla nonna i nomi di moltitudini di oggetti a me ignoti, informazioni sulla loro funzione, sulla fine che avevano fatto, se il ferro da stiro fosse davvero così comodo come sembrava dall’espressione distesa di una parente ritratta nel momento di inamidare una camicia a quadretti dal colore indecifrabile. E la nonna rispondeva puntualmente a tutte le mie domande, in piedi, i gomiti appoggiati su un tavolo rotondo ora ricolmo di fotografie; mi sembrava più giovane e non feci fatica a intravedere in lei i segni di quella ragazza sopravvissuta alla guerra. 
Quando arrivò mia madre a prendermi, la nonna le mostrò le foto dei primi anni sessanta, tra cui una in cui erano ritratte entrambe all’ombra di un cortile in compagnia di un bellissimo cane lupo e per un attimo mi sembrò di essere lì con loro, nella calura di un pomeriggio d’estate, e di sentire l’abbaiare di quel cane che aveva il nome di Lupo. 
Una volta sulla soglia, chiesi alla nonna: “Ma la foto della comunione? Non l’abbiamo trovata …” e lei, accennando un raro sorriso, mi disse “Eh, un’altra volta poi, non sei contenta per oggi? Non ti basta? Dobbiamo cercarla bene quella, per esserci c’è. E non sai quante altre cose ci sono nell’armadio …”.

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