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La lotta femminista nelle città di provincia

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“Nella complessa tematica che sta alla radice delle contestazione del ’68, si è evidenziato l’autoritarismo”. Comincia così il comunicato che il 14 marzo 1975 firmano le donne del Collettivo femminista comunista di Viterbo che si propone di sottolineare l’opposizione alla subalternità del ruolo femminile all’interno della società.

Un piccolo passo indietro: nel 1968 si inizia a diffondere sullo stivale il cosiddetto “femminismo della seconda ondata”; seconda ondata perché -a differenza della prima- il focus delle rivendicazioni delle donne non è più sulla richiesta di uguaglianza rispetto all’altro sesso per la quale si combatté decenni prima bensì sul tener conto in maniera significativa delle peculiarità e prerogative femminile cercando di creare una società quantomeno equa. 

11 giugno 1977 – Manifestazione contro il “voto nero” al senato che ha affossato la legge sull’aborto (foto di Piero Ravagli) fonte Herstory

La donna, anche quella di provincia, ritenuta magari (e a torto) più ignorante e villana rispetto all’omologa cittadina, inizia a ribellarsi sempre più al suo ruolo di “angelo del ciclostile”; concetto che dal collettivo viterbese è così reso:

“[…] nel corso dei secoli, il ruolo di oppressa della donna non è mai mutato, anzi la morale cattolica fin dalle sue origini lo ha ribadito e teorizzato: la donna non solo nasce dalla costola dell’uomo, ma è condannata al dolore della riproduzione. Il concilio di Caledonia nel 451 discuteva se la donna avesse o no un’anima, ma su un punto erano tutti d’accordo: la donna era il “corpo” per eccellenza, la discendenza di Eva, la tentazione personificata, il peccato, il diavolo. Per lei non c’era scelta: nella misura in cui usava liberamente di sé stessa era motivo di scandalo e quindi di condanna; se voleva, invece, essere accettata, doveva rientrare nel ruolo costruito per lei ma non da lei di vergine o di madre. Se poi una donna osava pensare, contestare il potere, diventava l’invasata dal diavolo, la strega. […]”

14 marzo 1975 – Documento Collettivo Femminista Comunista di Viterbo (fonte Herstory)

Solo pochi anni prima della firma di questo documento nasceva infatti a livello nazionale il Collettivo Femminista comunista come branca della “nuova sinistra”.

A tutela e supporto delle donne Emma Bonino fonda il Cisa

A Milano il Cisa (centro italiano sterilizzazione e aborto) grazie all’energia di Emma Bonino forniva informazione e assistenza su contraccezione, sterilizzazione e aborto. In un’Italia che una legge sull’aborto ancora non l’aveva, la legge 194 sarebbe entrata in vigore solamente nel 1978.

Adele Faccio ed Emma Bonino durante una manifestazione per la legalizzazione dell’aborto (fonte Pasionaria)

Ma questo piccolo pamphlet non deve farvi pensare che solo nelle grandi città la lotta femminista fu portata avanti. Certo, magari lì accadeva con più fragore e visibilità; era nei piccolo centri che le donne si riunivano a discutere, parlare, confrontarsi; questi micro-gruppi organizzano manifestazioni o si muovono per confluire alle imponenti marce avvenute nella capitale -vedasi la manifestazione del ’77 contro il “voto nero” che affossò il primo tentativo di legge sull’aborto– fanno nascere consultori autogestiti, soprattutto creano cultura: leggono libri, inaugurano case editrici e redazioni giornalistiche, aprono gruppi teatrali. 

Un micro-cosmo brulicante di idee, tanta voglia di liberarsi dal patriarcato, estremo furore libertario nel voler affermare la libertà del proprio corpo, necessità di urlare che “il personale è politico” e che è proprio il privato, l’intimo, il primo luogo nel quale ogni donna deve stroncare il perpetuarsi dell’oppressione.

Dai piccoli paesini alle piccole città, dalla provincia alla metropoli, dalla metropoli alla nazione.

Tanto è stato fatto, tanto altro c’è da fare. 

Ma gli esseri umani hanno la pervicacia per farlo!

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