Pausa pranzo. Di quelle nelle vecchie trattorie di quartiere con tovaglie a quadri, menu fisso e campanello che segnala la presenza dei clienti quotidiani, per la maggior parte operai. Anche i discorsi sono fissi, i treni in ritardo, la partita della sera prima, le lamentele delle mogli e spesso, pur non conoscendosi veramente, gli avventori si rispondono da un tavolo allāaltro, secondo le tacite e inoppugnabili norme delle tavole calde, soprattutto quando si tratta di commentare ad alta voce le notizie del telegiornale gentilmente offerte dal televisore sopra le loro teste, servendomi interessanti inconsapevoli spunti di riflessione. āSi, ma tu ci credi a quelli? Ai giornalisti, beh, con tutte le notizie false che girano, per non parlare di quelle su Facebook poiā¦ Da quando hanno inventato i social, ormai siamo sommersi di notizie false che ĆØ meglio non leggere, lo fanno apposta ā¦ā a cui seguono immancabilmente sommessi mormorii di assenso, tra tintinnii di forchette, soffiate di naso e bicchieri che si svuotano.
Dal mio tavolino in penombra faccio un poā di fatica a credere che le fake news, campagne intenzionali di disinformazione a parte, siano figlie legittime dei social media o comunque dei meccanismi piĆ¹ o meno noti che regolano la societĆ del XXI secolo, attraverso la propagazione fulminea di ogni tipo di notizia e la conseguente condivisione compulsiva da parte di utenti frettolosi che non hanno nĆ© tempo nĆ© voglia di verificarne lāattendibilitĆ . Al giorno dāoggi i social media rappresentano il canale di diffusione rapida di contenuti per eccellenza, tuttavia dovremmo resistere al fascino mendace di quella nostalgia che ci induce a glorificare un passato mai esistito in cui giornali, radio e riviste di tutto il mondo si impegnavano a diffondere unicamente notizie attendibili.
Penso alle leggende metropolitane, figlie di ignoti abbandonate nella notte dei tempi di cui nessuno ha mai rivendicato la paternitĆ . Mi chiedo se rispondano a una caratteristica intrinseca dellāessere umano di giustificare ciĆ² di cui non si conosce lāorigine o piuttosto a un innato bisogno di storie al fine di rafforzare lāidentitĆ culturale o lāappartenenza a un determinato gruppo sociale.
Penso anche agli errori di interpretazione, come, tra i tanti, quello ad opera di Giovanni Battista Ramusio che, nelle note alla prima versione italiana de Il Milione attribuƬ la diffusione della pasta di grano duro in territorio italiano a Marco Polo di ritorno dalla Cina, quando invece questāultimo aveva scritto che āQui Ć una grande maraviglia, che ci Ć n farina dāĆ lbori, che sono Ć lbori grossi e hanno la buccia sottile, e sono tutti pieni dentro di farina; e di quella farina si fa molti mangiar di pasta e buoni, ed io piĆ¹ volte ne mangiaiā riferendosi alla pasta di sago (amido estratto da un particolare tipo di palma).
E, come se non bastasse, nel 1929 un giornalista americano del āMacaroni Journalā ebbe la brillante idea di conferire la paternitĆ della pasta nientepopodimeno che al mitico signor Spaghetti, marinaio al servizio di Marco Polo che un giorno, sceso dalla nave, avrebbe incontrato una contadina intenta a mescolare un impasto semiliquido che via via si solidificava e che avrebbe poi acquistato per farlo conoscere al resto dellāequipaggio, modellandolo in piccoli cordoncini da cuocere nellāacqua giĆ salata del mare. Ladies and gentlemen, ecco a voi gli spaghetti. Rigorosamente Made in Italy. O forse no.
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