Il 21 giugno 1571 salpò da Civitavecchia una piccola flotta guidata dall’ammiraglio Marcantonio II Colonna; undici galee pontificie che si uniranno, poco tempo dopo, all’immensa armata navale della Lega Santa voluta da Papa Pio V per fronteggiare l’avanzata dei turchi infedeli.
Questo breve trafiletto è la Storia con la s maiuscola, quella che studiate tra i banchi di scuola perché infatti siamo certi che tutti conoscerete –anche solo per sentito dire- la Battaglia di Lepanto, lo scontro navale che vide vincitrici le forze cristiane; tra queste forze le 11 galee dell’ammiraglio Marcantonio II Colonna.
Concentriamo però lo sguardo sui dettagli, che sono quelli che fanno la differenza: proviamo ad immaginare e descrivere la mischia battagliera: il vento sferza violentemente le vele che producono un sibilo assordante, quasi peggiore di quello delle esplosioni dei cannoni; il legno cigola per il peso che è costretto a sopportare ed i bruschi movimenti di tanti uomini tutti assieme; uomini che in quel momento sono guerrieri: urlano per darsi la carica, farsi coraggio, aumentare la furia assassina, esorcizzare il terrore. È difficile ormai dire se le assi del ponte, a poppa ed a prua, si siano imbibite di acqua marina o del sangue dei moribondi. C’è puzza. Puzza di sangue, di sale, di bagnato, di sudore, di polvere da sparo.
Su tutto governa il roboante fragore del mare.
Il Golfo di Corinto, quel 7 ottobre 1571, è l’Inferno sulla Terra.
Ulteriore focus dello sguardo: la nave ammiraglia della flotta Colonna trasporta non solo combattenti: tra loro c’è un uomo che nella vita per combattere ha usato al massimo l’acqua santa ed il crocefisso; frate Marco è infatti solo un cappuccino viterbese, imbarcatosi per curare l’animo dei truci guerrieri.
Che paura ha il povero Marco! Misero indifeso, animo pavido e delicato, c’è da immaginarselo chino, rintanato nella stiva, gli occhi fuori dalle orbite per il terrore, i denti a battere incontenibilmente e nella gola solo una tremula preghiera: “Santa Rosa, Sant’Antonio, salvate la mia vita e l’equipaggio, vi prego fate sì che io possa rivedere Viterbo!”
E frate Marco la sua città la rivedrà davvero, tornò con la flotta vittoriosa e con la vita salva; la prima cosa che fece fu far realizzare da uno sconosciuto pittore un ex-voto, una tavola dipinta nella Chiesa di San Francesco; tra le figure del Padre Eterno, degli angeli Gabriele e Raffaele e di frate Marco stesso ecco ben rappresentata la battaglia delle Echinadi in tutto il suo bellico splendore che tanto aveva atterrito il nostro povero protagonista. Più sotto, tra Santa Rosa e Sant’Antonio inginocchiati, la città di Viterbo in una delle uniche rappresentazioni reali della nostra città nel XVI secolo.