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Nello studio di Francis Bacon

So che era un uomo difficile, collerico, cinico. Forse Francis Bacon era anche un uomo cattivo. Ma verso di lui nutro un inspiegabile affetto: lo stesso affetto che recentemente ha riunito a Parigi centinaia di migliaia di francesi per partecipare ai funerali del cantante Johnny Hallyday. Proprio così, per me Francis Bacon era una rockstar, una celebrità del cinema, il pugile Mohammed Alì che sfidava a Kinshasa l’indistruttibile George Foreman.

Discendente da una famiglia di nobili origini, nato nel 1909 a Dublino ma di sangue britannico, Francis Bacon fu uno dei più grandi pittori del ventesimo secolo.

Cubista? Surrealista? Espressionista? Impossibile ricondurlo ad alcuna delle tantissime correnti che colorirono la recente storia dell’arte: il fuorilegge lo definiva l’amico scrittore Michel Leiris in un breve saggio a lui dedicato, riferendosi appunto al suo estremo individualismo, la sua strenua rivendicazione di libertà stilistica.

Una stella che brillava di luce propria, Francis Bacon, un talento naturale, impulsivo, scatenato, mosso dall’unico desiderio del fare: da giovane non aveva studiato a una scuola d’arte, la sua formazione era avvenuta in giro per l’Europa abbuffandosi avidamente della pittura di Picasso e degli scritti di Nietzsche, oltre che improvvisandosi designer d’interni nella Londra degli anni’20.

Dipingere era nato per lui come un’attività spontanea: adorava i maestri, Diego Velasquez, Nicolas Poussin, Tiziano, ma poi faceva di testa propria. Dopo prove altalenanti, tentativi riusciti a metà e presto dimenticati, il successo gli era arrivato passata la trentina, quando lui stesso iniziava quasi a non crederci più: fu Tre Studi per figure alla base di una Crocifissione (1944), opera monumentale da molti considerata quale il suo personalissimo Guernica, che ne rivelò la straordinaria sensibilità artistica al pubblico inglese e internazionale.

Dal secondo dopoguerra fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1992 a ottantatré anni non ancora compiuti, Francis Bacon fu venerato e criticato quali pochi altri artisti del suo tempo, chi scorgeva nei suoi inquietanti dipinti un’inequivocabile genialità, e chi invece provava semplice repulsione.

Celebre, a questo proposito, il giudizio di Margaret Thatcher, che un giorno si riferì a lui come “l’uomo che dipinge quei quadri orribili”. Bacon, da parte sua, poco si curava dell’opinione altrui, persino di quella della donna primo ministro del Regno Unito.

Interrogato più volte sul perché di tanta violenza, tanta angoscia, tanto dolore nelle sue immagini dipinte, rispondeva candidamente che tutto era frutto della mera ispirazione.

Dietro ai suoi mostri, le sue bocche digrignanti, i suoi personaggi deformati, le sue visioni infernali, non c’erano significati nascosti : la pensassero come volevano, i critici, gli psicanalisti, gli studiosi di astruse simbologie.

L’arte di Francis Bacon era impermeabile a qualsiasi interpretazione razionale.

A Bacon piaceva viaggiare, amava la Francia e forse ancor più la Spagna, tanto da dedicare alcuni quadri allo spettacolo cruento della corrida, ma lui non era uno di quegli artisti apolidi senza fissa dimora.

Doveva essere il clima, umido e plumbeo, l’architettura austera degli edifici, le acque limacciose del Tamigi, oppure i pub di Soho che l’accoglievano come un qualsiasi altro avventore venuto a farsi una birra appena uscito dall’ufficio… insomma, era nella città di Londra che Francis Bacon si sentiva realmente a casa.

Nella capitale inglese, infatti, il pittore stabilì quelle che furono di volta in volta le sue dimore artistiche: prima al 17 Queensberry Mews West, poi al 7 Cromwell Place, poi in diversi luoghi in giro per la città fino ad approdare definitivamente al 7 Reece Mews nell’autunno del 1961.

Fu in questo alloggio modesto, situato in un vicolo acciottolato nel quartiere di South Kensington, che Francis Bacon creò l’ambiente ideale al suo dipingere. Uno spazio ristretto, una stanza larga pochi metri e dal tetto spiovente, gli servì per più di trent’anni quale studio creativo.

Per gli appassionati di Bacon, recarsi oggi all’indirizzo del 7 Reece Mews a Londra vale quanto per i cultori della rivoluzione francese visitare la Piazza della Bastiglia a Parigi. Poco o nulla è rimasto del glorioso passato.

Nel 1998, infatti, otto anni dopo la morte dell’artista, l’intero studio fu rimosso dalla propria sede e trasferito a Dublino.

L’erede unico di Francis Bacon, l’amico di lunga data John Edwards, acconsentì che una squadra di specialisti smontasse pezzo per pezzo il laboratorio del pittore britannico per poi ricostruirlo all’interno della galleria dublinese di Hugh Lane, dove adesso si trova.

Un trasloco, questo, che non incluse solamente le pareti e il suolo della piccola stanza: più di 7000 oggetti furono rinvenuti e inventariati, creando così la più grande base di dati mondiale riguardante un solo atelier artistico.

Viene da domandarsi, a questo punto, che cosa Francis Bacon ci tenesse, in quell’umile dimora al primo piano di un vecchio edificio, raggiungibile tramite una scala ripida e stretta. Prima di svelarvi l’incredibile tesoro scoperto al 7 Reece Mews, e affinché ne apprezziate il vero valore, è giusto fare una breve precisazione.

Lo studio, per un artista, non ha lo stesso significato che può avere un ufficio per un impiegato, o un negozio per una commessa. Lo studio rappresenta qualcosa di più che un luogo di lavoro: è un luogo d’ispirazione, e come tale va riempito, addobbato di tutto il materiale atto a suscitare l’estro creativo.

Accedere nell’atelier di un artista come Bacon, quindi, corrisponde in una certa maniera a entrare nel suo spazio mentale, se non propriamente nella sua intimità: questo è il motivo che spingeva il pittore a limitarne l’ingresso a pochissime persone, tra le quali appunto l’amico John Edwards.

Ora che lo studio di Francis Bacon è visitabile da chiunque all’interno della galleria Hugh Lane di Dublino, parte del suo fascino misterioso è venuto meno, sostituito tuttavia dal piacere della scoperta. Scoprire quei pochi metri quadrati in cui fu concepito uno sconvolgente universo artistico.

Inutile e impossibile, considerata la limitatezza di questo post, elencare tutti i libri, i cataloghi, le fotografie, i disegni, i quadri e le carabattole varie che Francis Bacon custodiva al 7 Reece Mews : meglio allora soffermarsi su quei particolari che facevano dello studio un luogo permeato dalla fascinosa personalità dell’artista.

Nei quadri di Bacon tutto nasce dal colore, tutto nasce dalle tonalità scure che demarcano i personaggi ritratti o riempiono i larghi fondali da cui le figure emergono.

Nero, grigio, blu, viola e rosso erano i suoi colori preferiti, spezzati talvolta da un giallo accecante o un verde smeraldino. Il colore, insomma, era l’impasto degli oli che contribuiva alla particolarità del suo stile. Il fatto curioso è che il pittore non faceva uso della tavolozza per creare i miscugli cromatici con cui poi tingere le tele: forse per vezzo creativo, forse per mancanza di regolare formazione accademica – si trattava pur sempre di un autodidatta – Francis Bacon testava i colori direttamente sulle superfici verticali del suo laboratorio, sulle pareti, sulla porta, persino sui mobili. Una pratica quasi selvaggia, questa, che spiega le pesanti tracce cromatiche ancora visibili sui muri della piccola stanza di lavoro.

Le grandi macchie colorate, considerate scherzosamente dall’artista come le sue uniche opere astratte, sono a ben vedere dei campioni, dei germi, delle prove della pittura di Bacon: il suo studio era impregnato della sua stessa arte.

Oltre ai colori, oltre alle macchie, oltre gli schizzi, oltre gli sgocciolamenti di pigmenti, il laboratorio di Bacon custodiva una mole sorprendente di oggetti impiegati a fini pittorici.

Agli strumenti tradizionali dell’artista quali pennelli, spazzole e pastelli, Francis Bacon nel corso di tutta la sua carriera abbinerà utensili più insoliti come spugne, bottiglie tagliate o brandelli di pantaloni per l’applicazione del colore sulla tela dei quadri.

La sua sperimentazione iniziava al di fuori del dipinto, prima del dipinto: nella rielaborazione e nell’utilizzo di tutti gli oggetti che servivano quali attrezzi d’artista.

L’elemento più enigmatico e per questo più affascinante dello studio di Bacon resta però il grande specchio posto su uno dei lati corti del laboratorio.

Di forma ovale, addossato a una parete e poggiato su di uno scaffale, lo specchio era uno strumento che allargava il campo visivo dell’artista a diverse prospettive. Osservare il riflesso di un oggetto o di un corpo dal dietro, lateralmente, di sbieco, permetteva all’artista di scomporne l’immagine in più vedute, più particolari, per poi riaggregarla su tela secondo la sua inconfondibile tecnica fatta di distorsioni, accavallamenti prospettici, incongruenze formali.

Prima di nascere nella sua testa, in quel cranio pieno d’idee pazzoidi, prima di assumere forma e materia, colore e sostanza, un dipinto di Bacon maturava nel calcolato disordine che imperversava nel suo studio: un luogo, questo, oggi preservato nella galleria Hugh Lane di Dublino dietro delle grandi teche di vetro. Come del resto una qualsiasi altra opera d’arte.

Fonte: Nello studio di Francis Bacon – La valigia dell’artista (lavaligiadellartista.com)
La valigia dell’artista – Blog di arte moderna e contemporanea

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