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venerdì, 23 Ottobre 2023

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Il giardino delle mandorle

Autrice: Gloria Costante

I nostri pomeriggi settembrini erano ben diversi da quelli dei bambini della mia età. Niente scivoli o gelati al cioccolato, nessun aquilone da tagliare né fiabe da raccontare perché le uniche storie che conosceva erano quelle più o meno romanzate della sua vita. 

Ci siamo conosciuti gradualmente, tra la mia diffidenza e i suoi tentativi impacciati di fare il nonno. Un giorno, chissà come chissà perché, abbiamo iniziato a giocare a carte e a capire come funzionano le somme in una matematica fuori dai banchi di scuola, sotto le luci della sua bottega, e siamo rimasti seduti a quel tavolo di legno scuro per dodici lunghi anni. 
Sul finire dell’estate, prima dell’inizio della scuola, andavamo nella casa in campagna a dare da mangiare -quando se lo ricordava!- alle piante più o meno spontanee che abitavano quello che lui definiva “il giardino delle mandorle”. Salutavamo mio padre e salivamo a bordo di una vecchia Cinquecento, un tempo bianca, targata 162002, che di cose ne aveva viste eccome, ma sarebbero restate per sempre nella gommapiuma silente dei sedili ormai sfondati.
Rikardo Leka, acquerello e matite.
Facevamo un paio di chilometri ed eccoci lì, all’ombra di alberi spesso senza nome. Da lontano scorgevo i muretti a secco fatti di sassi di varie dimensioni perfettamente incastrati e ogni volta mi chiedevo da quanto tempo fossero lì e chi li avesse impilati. 

Ci fermavamo davanti a un cancello verdino sbiadito da quel sole che non piaceva a nessuno dei due, sul quale spiccava un grande segnale di divieto d’accesso, preso chissà dove, anche se a suo dire, lui l’aveva semplicemente trovato “da qualche parte” e io non mi ponevo troppe domande perché sapevo benissimo che era in grado di procurarsi le cose più strane e inutili. 
Varcavamo la soglia accolti dalle zanzare che pungevano solo me, si cambiava i sandali indossandone un paio perfettamente uguale ma più vecchio e sporco di terra e iniziavamo il nostro giro. Gli chiedevo i nomi degli alberi. Questo è il mandorlo, questo il fico, questo fa le arance ma dicono che non siano buone, anche se io le mangio lo stesso, quelli sono i fichi d’India, ma li conosci già. 

Quando eravamo di fronte all’albero dei corbezzoli o al carrubo lui li chiamava in dialetto e io non riuscivo a capire cosa volesse dire, perciò mi liquidava con un “Sono piante spontanee: assaggia il frutto e cerca di capire cosa sono
giardno mandorli
Nell’altro viale c’erano altri alberi ignoti da innaffiare e quando gli chiedevo delucidazioni sulla loro identità, lui mi rispondeva con un’alzata di spalle con aria di sincera ignoranza, come a dire che erano sempre stati lì e non avevano mai dato frutto quindi erano per forza di cose indecifrabili, e allora io iniziavo a fantasticare sulle loro possibili origini. 
Al centro vi era una casetta al cui interno, oltre al disordine, vi erano un vecchio materasso poggiato su una rete a molle troppo lunga, dei secchi vuoti per raccogliere i fichi e un frigorifero più o meno della mia altezza che conteneva unicamente bottiglie di acqua frizzante col tappo blu, di una sottomarca che piaceva solo a lui. Fuori vi era un lavandino arrugginito con un detersivo dal nome illeggibile, ormai allungato con l’acqua da tempi immemori, al posto del sapone. 
A volte raccoglievamo i fichi d’India, che per lui avevano vagamente tutti lo stesso colore a metà tra il giallo e il rosso diverso dalle fragole e lo facevamo con guanti sottilissimi, per cui quasi a mani nude e puntualmente gli chiedevo come avrei fatto a togliere questa e poi quella e ancora quell’altra spina al ché lui, con la sua solita fretta travestita da pragmatismo, mi rassicurava che sarebbero andate via da sole, non avrei dovuto toccarle, non facevano poi così male, erano fesserie da metterci un po’ d’acqua, strofinare le mani e se non vanno via subito se ne andranno domani.

Era convincente, in fin dei conti, tanto che avevo preso a seguire la sua filosofia anche nella vita di tutti i giorni e i problemi mi sembravano piccole spine di passaggio che in un modo o nell’altro sarebbero andate via da sole quando non ci avrei pensato più.
Dopo aver raccolto il raccoglibile, andavamo in bottega da mio padre, lo salutavamo al volo e ci precipitavamo al nostro tavolo in legno scuro, rigorosamente agli stessi posti, per le nostre interminabili partite a scopa, briscola, tre sette, asso piglia tutto e ruba mazzetto. 

A un certo punto metteva la mano in tasca ed estraeva il suo portafoglio di cuoio, apriva la tasca delle monete e ne rovesciava sonoramente il contenuto sul tavolo. Facevamo roteare le monete per pochi istanti e poi le mettevo in tasca, con la promessa di non dirlo a nessuno, non ho mai capito perché, ma forse era un nostro piccolo segreto. Poi si spegnevano le luci, tacito segnale di mio padre che era ora di andare, un bacio al vecchio e di corsa in macchina verso una cena in una casa fredda.
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