Un racconto di: Stefano Tubaro
Avevo già visto qualche volta della nebbia, quando ero un pendolare innamorato, nei miei spostamenti dal venerdì alla domenica a Reggio Emilia. A dosi sopportabili era bella: inondava oggetti e persone di una sorta di latte, rendendo tutto più uguale, per una strana forma di democrazia imposta dal meteo. Quella sera, invece, la sua densità superava qualsiasi soglia di accettabilità.
Il treno sembrava comunque divertito da tutto ciò e la solcava placidamente, come una grande anguilla. Era ormai sera e l’ora era quasi quella dell’arrivo. Per questo mi ero alzato dal mio posto e mi ero avvicinato all’uscita. Non ero solo: vicino alla porta si erano aggiunti, silenziosi ed uguali come copie conformi, cinque cinesi che si preparavano a scendere a destinazione.
Poco dopo, il mezzo annunciava con uno stridio di freni l’imminente fermata. Aperte le porte, la visibilità era davvero minima. Vedevo il metro di marciapiede davanti ai miei piedi. Vista la situazione e forse perché ispiravo fiducia, i cinque cinesi si erano accodati a me, seguendomi come se fossi stato un pifferaio magico. Ad un certo punto, il marciapiede aveva lasciato spazio a qualcosa, tipo un palo di un cartello, che doveva esporre in bella vista il nome della località: Reggio Emilia. Tre passi ancora e questa certezza si era rivelata infondata, visto che la scritta era in realtà “Rubiera”.
Accorto della situazione e del problema che si era creato, avevo urlato “Rubiera?” I Cinesi al mio seguito, in coro, avevano risposto al mio stupore strillando all’unisono: “Lubiela?”. Con uno scatto animale, sfidando la nebbia ed il buio, io ed i cinesi avevamo ripercorso la strada al contrario, trovando ancora il treno al suo posto, con le porte ancora aperte, seppur ancora per soli pochi secondi dalla nostra completa salita.
Per arrivare a Reggio Emilia, mancava ancora un breve tratto. Il treno si era fermato, ma le porte in teoria non dovevano aprirsi, giurava il capotreno, grattandosi la testa. In breve tempo ci eravamo fermati di nuovo. Questa volta però, varcata la porta, in mezzo alle volute di candore lattiginoso, mi avrebbe aspettato un tenero abbraccio.
Un racconto di Stefano Tubaro