Un racconto di Giulio Natali.
Li sbircia dalla finestra mentre una scia bianca sporca il cielo, in certi momenti sembrano perfino normali. Giocano in cortile a nascondino, uno conta attaccato al muro, l’altro è accucciato dietro un cespuglio. È il loro modo di non destare sospetti.
Tutta colpa di quel morso di vipera mentre lui e la moglie passeggiavano per il tratturo un pomeriggio di luglio, dopo che di mattina il ginecologo sentenziò “Endometriosi”. Soccorse Michela con l’acqua nella borraccia e un fazzoletto di stoffa mentre stavano giusto parlando di adottare un bambino. “Hai una presa della corrente alla caviglia”, si mise a scherzare accarezzandole i capelli ricci. Pensò che l’avessero scampata, invece quello fu l’inizio della fine. Il mese dopo il ciclo non arrivò.
“Sono due”, disse stavolta il ginecologo. Come i fori lasciati dalla vipera. Sette mesi e mezzo di attesa, poi a Michela si ruppero le acque all’improvviso mentre lui era in Germania con il camion. Arrivò dodici ore dopo.
“Emorragia massiva”, gli spiegò il ginecologo mostrandogli l’obitorio. “I neonati invece sono di là”.
Corse a vederli e capì che qualcosa non quadrava. Non piangevano, non si agitavano, non dormivano. Dalla culla, seminascosti da apine e farfalline, se ne fregavano della morte della madre e lo guardavano con disprezzo e superiorità. Continuarono a farlo negli anni successivi, mentre lui, immerso tra omogeneizzati e ciucci, tricicli e pongo, provava a negare l’evidenza. Arrivò anche a condividere con il vicino i pensieri che gli riempivano la testa appena sveglio, per farli volare via. Senza esito. Ogni giorno che passa i gridolini, i respiri, persino l’odore della cacca rafforzano i sospetti.
Resta dietro la tenda ancora un po’, stando attento a non farsi vedere. Non corrono come gli altri bambini, uno ha una gamba più corta di un centimetro, l’altro ha il ginocchio valgo, ma sono due schegge, quanto a velocità nel condominio non li batte nessuno. Le dita delle mani assomigliano ad artigli, la falangetta è curva e adunca. Fanno fatica ad afferrare una moneta, ma sono una morsa quando stringono.
In compenso il naso è come quello dei topi, lungo e sottile, e le narici grandi come caverne. Non hanno preso niente dai genitori. A cinque anni sanno leggere e scrivere, mentre lui alle elementari stava con l’insegnante di sostegno perché tartagliava. Si è documentato in abbondanza sui siti specialistici e ne è certo, nel loro corpo non c’è traccia di DNA umano, dunque è solo questione di tempo, dopo che hanno fatto fuori la madre sarà il suo turno e poi di chissà quanti altri. Quello nascosto dietro al cespuglio alza la testa verso il secondo piano, vede il padre in penombra e gli sorride facendo la linguaccia.
È l’ennesima provocazione, un altro segnale che la resa dei conti è vicina. Non c’è più tempo da perdere, l’uomo prende il barattolo del veleno per gli scarafaggi e scioglie la polvere nel minestrone. Poi scende le scale dicendo a se stesso di mantenere la calma, tutto sta per finire.
Arriva in cortile, “A tavola il pranzo è pronto”, strilla, poi si blocca impietrito con la bocca spalancata e le sopracciglia inarcate. Sopra un lago di sangue galleggiano senza vita i corpi dei bimbi.
“Maledetti rettiliani”, ghigna a tre metri da loro il vicino con il fucile in mano e le pupille ancora dilatate per l’eccitazione.