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venerdì, 23 Ottobre 2023

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Ricordati di chiamare Carlo

-Non crepo neanche stavolta, non ti preoccupare. Saluti- e mise giù. 
Comunicare con suo padre era sempre stato difficile, ma negli ultimi anni era diventato impossibile. Carlo era sempre stato un montanaro schivo, che non amava particolarmente il contatto con la gente, ad eccezione di alcuni amici per cui, con molta probabilità, avrebbe dato la vita, anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti a loro. Le parole non gli piacevano, erano un artificio cittadino di chi non sapeva fare nulla e aveva bisogno di ricorrere ai fronzoli. 
Rikardo Leka, acquerello e matite.
A lui piacevano le cose vere, quelle che si potevano toccare e che si spiegavano da sé, come il legno e le piante. Ma questo suo figlio Filippo non l’aveva mai capito tanto che, appena fu possibile, si trasferì in città e iniziò una nuova vita di parole: divenne avvocato, sposò un’illustre cittadina ed ebbe un figlio maschio, Andrea. 
In quei giorni di quarantena, Filippo e la moglie Sonia avevano pensato al vecchio lassù sui monti, sarebbero stati disposti a ospitarlo nel loro appartamento al sesto piano, ma sapevano che ogni tentativo di convincimento sarebbe stato vano poiché Carlo non si sarebbe mosso dal paese per nessun motivo al mondo. Era già isolato da tutti, non aveva la televisione e il telefono lo usava solo quelle poche volte in cui si ricordava di caricarlo. 
I suoi contatti con la gente erano limitati a quelli con gli abitanti di quel paesino che amava e dove tutti lo conoscevano e gli volevano bene, rispettando la sua indole solitaria. Una sera Filippo prese in disparte Andrea, alzò gli occhi al cielo e con fare sbrigativo disse al figlio: - Chiama il nonno Carlo. A me ha messo giù, figurati. Chiamalo perché a te ti ascolta. Vedi come sta e se dobbiamo chiamare i servizi sociali-. 
Andrea aveva sedici anni e, a dispetto del padre, aveva un buon rapporto col nonno e si sentiva tanto vicino a lui e alla sua personalità, sebbene si vedessero solo un mese all’anno, in estate. Il ragazzo andava in paese e imparava a lavorare il legno, tra un bicchiere di vino rosso – ché faceva sangue- e varie escursioni per respirare aria pulita e imparare a riconoscere i rumori della montagna, soprattutto di notte.
Durante l’anno si sentivano sporadicamente ma ad Andrea andava bene così perché capiva quanto il nonno ci tenesse alla sua solitudine e poi lo sapeva felice nel suo mondo di resina e tannini. Compose il numero. Al quarto squillo rispose tossendo:
- Comandi!-
- Ciao Carlo, sono Andrea, come stai?- chiese il ragazzo, che lo chiamava rigorosamente per nome, dato che sapeva che la parola nonno lo faceva sentire un vecchio rimbambito.
- Come tre mesi fa a quest’ora: bene. Tu, come va la scuola?-
- Male, come tre mesi fa.-
- Solita vita, insomma-
- Quindi, ehm … Stai bene?- chiese con poca naturalezza.
- Di’ a tuo padre che i giornali li leggo pure io, e non solo in questo periodo- ribatté con tono pungente.
- Mmh … -
Né Andrea né Carlo erano grandi chiacchieroni, soprattutto al telefono, perciò la conversazione era meccanica e piena di silenzi. Poi il ragazzo prese coraggio, chiuse la porta e si sfogò:
- Carlo-
- Comandi!-
- Non ce la faccio più-
- Cosa c’è?-
- Non li sopporto più. Mi sento in carcere, non ce la faccio a vivere con loro h24. E poi la scuola, le lezioni online sono ingestibili, la mamma si piazza lì e ascolta. E papà mi interroga anche, si vede che gli manca il lavoro. E, Carlo, mi manca la morosa. Non la vedo dal 10 marzo, sai che palle-. Probabilmente era la sequenza di frasi più lunga che Andrea avesse enunciato davanti al nonno in tutta la sua vita e Carlo si schiarì la voce:
- Che fossero due pigne in culo già lo sapevamo. Che lo facessero cigolare di più il loro lettaccio … - e ridacchiarono entrambi.
- Poi, - riprese il nonno, - queste diavolerie di computer non le capisco e non voglio capirle, fai uno sforzo, su, l’estate arriva in fretta-
- Il tempo non passa più, non so neanche che giorno sia oggi- disse laconico Andrea
- E che cazzo te ne frega che giorno è oggi! Io ho perso la cognizione del tempo da dio solo sa quanto, ma vivo bene uguale. Sono numeri, Andrea, che te ne frega a te dei numeri- 
- E poi … mi manca Barbara, ero abituato a vederla ogni giorno. Ci videochiamiamo, ma è una merda, quasi non so cosa dirle-
- Scrivile una fottuta lettera, no? Il tempo ce l’hai!-
- Carlo, voglio venire da te. Non ce la faccio più qui-
- In che mese siamo, marzo?-
- Sì, alla fine-
- Manca solo una stagione, pensa così. È una certezza-
- Grazie Carlo-
- Salutami i tuoi e digli che possono risparmiare sulle telefonate. Saluti a te- e mise giù. 
Si concludevano sempre così le telefonate, a Carlo non piacevano i convenevoli. Andrea rientrò in soggiorno e fu inondato di domande sul contenuto della conversazione, a cui rispose con i soliti mozziconi di parole davanti ai quali i suoi perdevano le staffe in un battibaleno. Sei tutto tuo nonno, si sentiva dire a ripetizione, che tono di voce aveva, li guarda i telegiornali, almeno, che stia attento, non è un giovane, ma dimmi tu se può vivere lassù tutto solo, e tu, Andrea, perché non l’hai rimproverato? Avresti dovuto convincerlo, dirgli che non può restare da solo, metti che gli succede qualcosa, ha bisogno di una badante, di assistenza, deve andarsene da lì, ma figurati se ascolta, quel vecchio rincoglionito. Andrea non aveva nessuna voglia di discutere e andò in camera sua. Le parole del nonno gli frullavano in testa, prese un foglio e iniziò a scrivere:
Caro Carlo,
lo so che noi non siamo abituati a parlare tanto ma sei l’unica persona a cui posso raccontare come mi sento veramente, Barbara è troppo giovane, e poi non vorrei turbarla con le mie robe. Mi sembra di essere ai domiciliari, chiaro, sono in hotel a cinque stelle: Netflix, divano, cibo, tepore, ma sono pur sempre ai domiciliari. Papà è in perenne contatto con i suoi colleghi, gli dà ordini e urla perché la connessione della segretaria è lenta. La mamma si rincoglionisce davanti ai buongiornissimi e alle bufale dei social (sai cosa sono? Diavolerie, come dici tu) e strilla come una matta se mi tocco la faccia o se non faccio lo starnuto dentro il gomito. 
E poi mi manca Barbara, per telefono non è la stessa cosa, mi manca il contatto, quando siamo insieme non siamo costretti a parlare, in videochiamata non possiamo guardarci in eterno. Come facevano i vecchi una volta?Mi sembra tutto vuoto.
La scuola vorrei tanto lasciarla. Finisco il terzo anno e via. Vengo con te sui monti, vengo a spaccare la legna e ad aiutarti nell’orto e nei vari lavori. Voglio che la mia vita sia un continuo agosto. Magari potremmo trovare qualcosa da fare anche alla morosa. Ti prego, fammi venire da te quanto prima, tanto a me di finire la scuola e di andare in università non mi importa. Io voglio fare la vita che fai tu. Se del mondo non ho bisogno, perché devo perdere tempo per fare qualcosa che non mi piace? 
Accetta la compagnia di un altro taciturno.
A presto,
Andrea
Aveva aspettato ben sedici anni per scrivere una lettera e imbucarla e il destinatario non era una ragazza ma nientedimeno che quello che i suoi chiamavano l’uomo del monte, ovvero suo nonno, anzi, Carlo. Qualche giorno dopo, Andrea nemmeno lo sapeva che giorno fosse, la postina gettò la posta sul vialetto e corse via in motorino. Aveva risposto:
Ti scrivo con la matita delle uova, l’unico oggetto scrivente in questa dimora, quindi scegli la luce giusta. Io sto bene e sono in quarantena da molto più tempo di voi: quindi ce la puoi fare, e sono sicuro che ti adatterai molto meglio di quel borghese rammollito di tuo padre. Ti mancano gli alberi, e questo è un problema. Se non hai piante da coltivare, coltiva la tua solitudine, solo così potrai vivere bene in montagna. Datti degli obiettivi: gli alberi non fioriscono a comando. Fatti amica la pazienza, che tu in guerra non ci sei andato, e si vede, tira fuori qualche bestemmia e resisti. E falli quei due anni di scuola, avremo un diploma per accendere il fuoco, quando verrà la neve. 
Io di qua non mi muovo, per adesso non crepo e tuo padre lo sa.
Ti aspetto tra una stagione.
Saluti, 
Carlo
Richiuse la lettera e andò a dormire, sognando il crepitio del fuoco nella stufa nelle notti in montagna.
Gloria Costante
Gloria Costante
Sono insegnante e traduttrice dall'inglese, francese, spagnolo verso l'italiano e collaboro con OpenPlanet come redattrice. Amo imbottigliare parole e sferruzzare racconti, seduta ad ascoltare storie di anziani e viaggiatori che nutrono la mia nostalgia di quelle epoche che non ho mai vissuto ma che, come in un romanzo di Proust, prendono vita davanti a me quando vengono spolverate dal silenzio del non raccontato. Amo il freddo dei romanzi russi, le montagne e il vino rosso della Carnia e la silenziosa compagnia dei miei gatti. Mi piace viaggiare con la mente e con la valigia e penso che OpenPlanet sia il posto giusto per fare tutto ciò.

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